Era una gelida sera di Gennaio del 2020 quando venni a scoprire di soffrire di IRC durante una semplicissima visita di controllo che feci in virtù del fatto che da quasi due anni soffrivo di febbre e vomito pressappoco continuamente e malgrado la sintomatologia,qualunque dottore con il quale mi fossi rapportato associava i miei sintomi alla fantomatica “ansia” tipica degli adolescenti. La scena della rivelazione della malattia fu impagabile, poiché tra le lacrime dei miei genitori si ergeva dominante il mio sorriso, come quello di un bambino che aveva aperto il regalo desiderato il mattino di Natale; finalmente i nodi erano giunti al pettine, e si era trovata una spiegazione valida a tutti i malesseri che stavano dilaniando la mia adolescenza. Alla tenera età di 20 anni iniziò così il mio pellegrinaggio negli ospedali; fui catapultato all’interno di un Grand Guignol. L’ospedale è un luogo dove la vita e la morte si confrontano in modo crudo e tangibile in cui la sofferenza umana è esposta in modo diretto: malati, medici, infermieri e familiari si muovono in un balletto di emozioni e tensioni. La differenza sostanziale è che nel Gran Guignol è tutta una simulazione, una riflessione esagerata delle paure e delle ansie. Mentre nell’ospedale la paura è reale e palpabile, dove la vulnerabilità umana è esposta e visibile.
La prima cura necessaria fu la dieta aproteica, in cui persi circa 15 kg a causa della scarsa alimentazione concessa, ma ai miei occhi era un prezzo insignificante da pagare per aver prosciugato i timori e i dolori che mi avevano demolito negli anni precedenti; inoltre c’è da aggiungere che l’essere umano è un essere abitudinario, come la famosa acqua di Bruce Lee, che assume la forma del recipiente in cui viene messa a contatto, ma che prima o poi ritorna sempre nel mare; pertanto come tanti anche io mi abituai a questa prima condizione pur dovendo fronteggiare grattacapi non da poco come le trasfusioni di urgenza che mi salvarono dal coma.
Dopo circa un anno e mezzo non ci furono più gli estremi per proseguire senza l’ausilio della dialisi e pertanto, di comune accordo con il dottore che mi seguiva al tempo decisi di iniziare il percorso della dialisi peritoneale, personalmente ritenuta come un arma a doppio taglio, poiché anche se ritrovai il piacere di un pasto abbondante dovetti anche cedere sonno, e arrestò totalmente la mia vita sociale a causa della simbiosi con la macchinetta per gli scambi dialitici che mi costringeva a stare bloccato per almeno 9 ore al giorno. Dopo un anno e mezzo la situazione precipitò a causa delle continue peritoniti (ben 6) che mi costrinsero a migrare celermente verso l’emodialisi. Iniziò così un nuovo capitolo della mia vita, parallelo a quello precedente, dove la vita sociale fu parzialmente ritrovata ma insorse un problema che si protrae ancora oggi ovvero la scarsità dell’acqua concessa; passare da 3-4 litri di acqua al giorno a circa 500 ml mi ha portato a diventare assuefatto dal pensiero di bere come un tabagista in piena crisi di astinenza; inoltre è chiaramente una pratica debilitante, in cui certi giorni non ti lascia le forze per fare nulla.
Non sono un ottimista di natura, anzi credo fortemente che gli ottimisti sono coloro che nella vita si siano già arresi, schiavi della pressione sociale che gli impone di normalizzare la loro “anormalità”. Personalmente trovo ilare vedere persone affette dalla MRC o in emodialisi imbracciare sentieri impavidi; come si suol dire mai fare un boccone più grande della bocca stessa, e delle volte bisogna riconoscere i propri limiti. Parafrasando Tolkien non possiamo decidere del nostro destino o in generale la nostra vita ma solo decidere come occupare il tempo che ci è dato a disposizione, ed è per questo che invito tutti i lettori, dai più grandi ai meno, di comprendere che delle volte la vita ti pone in situazioni in cui non avresti mai creduto di trovarti soltanto per sviluppare forze che non sapevi di avere e siate pazienti perché come disse Ovidio sarà proprio questo dolore a darci maggior forza per andare avanti e rifacendoci a Nietzsche, la sofferenza è solo un percorso verso la grandezza.
Alla fine la dialisi non è solo una battaglia contro la malattia ma anche una lezione di vita; vivere talvolta significa accettare le proprie fragilità, abbracciare l’incertezza e trovare la forza di andare avanti. Essa è un viaggio profondo verso la comprensione di se e del mondo, una ricerca della bellezza anche nei luoghi più inaspettati, in chiave petrarchesca nessun posto mi è realmente appartenuto ma ognuno mi ha formato verso la ricerca di una pace spirituale che ancora oggi mi da la forza per affrontare le tempestose difficoltà quotidiane.
Discutendo di viaggi, nell’accezione più concreta, non credo molto nella libertà di viaggiare, non riuscirei a viaggiare con tranquillità con la spada di Damocle posta sulla mia testa; mentre molto più valida sarebbe l’ipotesi degli sport, per alleviare lo stress e scaricare la tensione accumulata durante le sedute, tuttavia la debolezza fisica, in molti casi la presenza della fistola, e la poca acqua a disposizione rendono difficile se non impossibile praticare la maggior parte degli sport; personalmente avrei adorato imbracciare la strada della boxe, ma ahimè almeno per questa fase della mia vita dovrò limitarmi ad essere uno spettatore.
Un grande uomo, Gianluca Vialli, affermò prima di lasciarci che la malattia non è soltanto sofferenza, e non potrei essere più d’accordo dato che mi ha aperto gli occhi obnubilati da problemi frivoli e mi ha permesso di concentrarmi su ciò a cui tengo veramente, soprattutto la famiglia che spesso viene bistrattata a causa delle distrazioni a cui ci sottopone la vita. Certe volte ho la sensazione di vivere in stasi mentre il mondo procede, e mi lascia sempre più dietro, per poi rendermi conto che molte persone sono inconsciamente a loro volta bloccati in lavori che non li gratificano e relazioni che non li appagano, pertanto seppur per continue sventure la mia vita non è ferma ma in continua evoluzione; prima della dialisi mi sembrava tutto abbastanza scontato, mentre ora do valore ad ogni goccia d’acqua, ad ogni boccone, ogni sapore, ogni profumo ed ogni istante che mi è concesso di trascorrere con le persone care e confido nel trapianto come salvezza dalle angosce della vita, anche non nascondo che spesso quest’attesa diventa estenuante, quasi come se stessi aspettando “Godot”, una fantomatica luce che potrebbe risolvere i miei tarli ma che allo stesso tempo mette a dura prova le mie speranze e i miei timori. Per quanto altalenante come discorso la mia intenzione è quella di trasmettere ai lettori che nei nostri corpi, nella nostra anima, con la nostra vita abbiamo sviluppato una forza mastodontica, e combattiamo per qualcosa di concreto; Albert Camus esplorando il tema dell’assurdo produsse “il mito di Sisifo”, il quale venne condannato dagli dei a spingere un masso su una montagna solo per vederlo rotolare giù ogni volta che raggiunge la cima, metafora concreta della lotta umana contro le assurdità della vita. Camus sostiene che nonostante la futilità della condanna, Sisifo trova una forma di libertà e realizzazione nell’accettare la propria situazione. L’atto di spingere il masso diventa un metafora di resilienza, ed in questa accettazione Sisifo trova il suo senso, trasformando una condanna in un atto di sfida e affermazione della vita: la conclusione di Camus è che, pur riconoscendo l’assenza di un significato intrinseco, possiamo comunque vivere pienamente e trovare gioie dalla nostra esistenza, pertanto quando la vita, la NOSTRA vita, vi mette a dura prova, siate come Sisifo, stoici e forti, e ricordate per chi o per cosa lo state facendo.
Un giorno presto o tardi questa esperienza ci sarà utile e potremo riprenderci con gli interessi ciò che abbiamo trascurato.
Se non saranno le stelle ad andare da lui, sarà lui ad andare dalle stelle.
Grazie a tutti per la lettura e grazie ancora per l’opportunità.
di Antonio Veloce
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